SAN NICOLA DI MYRA

San Nicola nacque quasi certamente a Pàtara di Licia, in Asia Minore tra il 261 ed il 280 da genitori cristiani, Epifanio e Giovanna. In seguito, in età adulta, lascia la sua città natale e si trasferisce nella città di Myra dove venne ordinato sacerdote. Alla morte del vescovo metropolita di Myra, venne acclamato dal popolo come nuovo vescovo. Imprigionato ed esiliato nel 305 durante le persecuzioni emanate da Diocleziano, fu poi liberato dall'imperatore  Costantino nel 313 e riprese l'attività ecclesiastica. Secondo la Tradizione, compie una moltitudine di miracoli: strappa miracolosamente tre ufficiali imperiali al supplizio; preserva la città di Myra da una carestia; ottiene dell’imperatore Costantino anche sgravi d’imposta per Myra; si racconta che abbia placato una tempesta in mare; resuscita tre giovani uccisi da un oste rapinatore; venuto a conoscenza di un ricco uomo decaduto che voleva avviare le sue tre figlie alla prostituzione perché non poteva farle maritare dignitosamente, il santo abbia preso una buona quantità di denaro, lo abbia avvolto in un panno e, di notte, l'abbia gettato nella casa dell'uomo per tre notti consecutive, in modo che le tre figlie avessero la dote per il matrimonio. 
Secondo la Tradizione è stato uno dei 318 partecipanti al Concilio di Nicea del 325 e, sempre secondo la tradizione, durante il concilio avrebbe condannato duramente l'Arianesimo, difendendo la fede. 
Nicola muore il 6 dicembre a Myra, presumibilmente nel 343. Il suo culto si diffonde dapprima in Asia Minore: 25 chiese dedicate al santo a Costantinopoli nel VI secolo e poi in tutta la Chiesa Indivisa.


La traslazione di s. Nicola a Bari nel 1087. Dal libro L’Oriente traslato in Italia i percorsi delle reliquie di Enrico Morini edito da “TESTIMONIANZA ORTODOSSA”.

 Gli esecutori dell’iniziativa sono dei nauclerii, cioè degli imprenditori marittimi, dei mercatores e dei clerici, vale a dire, rispetto alle autorità civili e religiose cittadine, dei privati appartenenti, per così dire, ai ceti produttivi. L’impresa si configura peraltro come un vero e proprio investimento, previamente programmato ed adeguatamente finanziato, con un non trascurabile stanziamento di risorse. Il profitto preventivato non era direttamente di natura economica – a riprova dei diversi parametri di giudizio in vigore nel medioevo – ma nondimeno ordinato all’innalzamento del prestigio, per così dire, internazionale della città, nella consueta endiadi politico-religiosa. Non a caso sia le diocesi lagunari – dove risiedeva il doge delle Venezie – sia quella del capoluogo pugliese – già sede del catepano d’Italia – si trovavano in uno stato di prime erano suffraganee del patriarca della Nuova Aquileia, cioè di Grado – che ben presto avrebbe incominciato a porre a Venezia la propria residenza – e la seconda era gravemente mortificata dal fatto che suo vescovo era in realtà l’arcivescovo di Canosa, trasferitosi a Bari nella seconda metà del IX secolo, dopo la devastazione araba della sua sede e la conquista romano-orientale del capoluogo: soltanto nel 1089, cioè due anni dopo la traslazione delle reliquie nicolaiane, il nuovo arcivescovo Elia – figura di primo piano in questo evento – vedrà ufficialmente attribuito alla propria sede, da papa Urbano II, il doppio titolo arcivescovile di Bari e Canosa. Dell’esigenza di sanare questa appariscente anomalia, rappresentata dalla discrepanza tra la funzione civile e la posizione ecclesiastica delle due città, politicamente ed economicamente emergenti rispettivamente nell’alto e nel basso Adriatico, si fecero fattivamente interpreti proprio quei ceti imprenditoriali, marinari e mercantili, che di questa emergenza economica erano del resto i principali promotori. È massimamente significativo che in entrambi i casi lo strumento più idoneo sia stato identificato nel possesso di un corpo santo: nel primo episodio precisamente di quello dell’apostolo-fondatore della giurisdizione patriarcale di appartenenza, quella aquileiese-gradense, e nel secondo di quello del taumaturgo di Myra, un santo tra i più venerati nell’Oriente greco – la cui vicinanza geografica e la cui dominazione politica, da pochissimo tempo finita, erano strati fattori determinanti di ellenizzazione religiosa per la società pugliese – e già molto venerato anche nell’Occidente latino. Del resto anche i Veneziani, avendo nel frattempo smarrito il prezioso pegno rappresentato dal corpo di s. Marco –  che infatti verrà rinvenuto nel 1094 –, avevano cercato, proprio nel 1087, sempre con la finalità di elevare il profilo politico-religioso della propria città, di impadronirsi anch’essi della reliquia di s. Nicola, muovendo direttamente dalla loro base mercantile di Antiochia, in una veloce corsa contro il tempo, che sarà vinta dai Baresi sul filo del rasoio.
Tale retroterra ideologico comune trova indicative conferme in ulteriori analogie tra le due traslazioni, come ad esempio nell’iniziale estraneità, rispetto all’iniziativa stessa, proprio delle autorità ecclesiastiche interessate. Delle due spedizioni mercantili per appropriarsi dei rispettivi corpi santi sembrano infatti essere stati all’oscuro sia il patriarca di Grado, Venerio, sia il vescovo di Canosa residente a Bari, Ursone, che, quasi colto di sorpresa dall’arrivo delle reliquie nicolaiane, soltanto in quel momento si mostra deciso ad appropriarsene, in virtù delle sue prerogative episcopali. Inoltre la quasi speculare disputa sulla collocazione dei due corpi santi, vede entrambe le volte il ceto mercantile ed imprenditoriale marittimo, al quale si deve l’iniziativa delle due traslazioni, porsi in unità d’intenti con il potere politico ed in antagonismo con quello religioso. A Venezia, nel IX secolo, si vuole infatti che le reliquie di s. Marco vengano custodite nel palazzo ducale e, in prospettiva, nella erigenda chiesa palatina, ed a Bari, nell’XI, che quelle di s. Nicola siano deposte in  una chiesa da edificarsi «in curte catepani», cioè nel centro dell’antico potere politico bizantino, e non in cattedrale. 
  La stretta similitudine dei due casi sopra considerati non deve far credere tuttavia che quella da loro testimoniata sia l’unica valenza ideologica insita nel possesso di una reliquia: oltre che essere un forte segno identitario, coinvolgente insieme la  ecclesia e la civitas, essa può, almeno potenzialmente, dividerle, come dimostra la successiva acquisizione a Venezia di altre reliquie di s. Nicola, ovviamente alternative a quelle baresi. La Venezia della fine dell’XI secolo, in piena fioritura politico-economica, non demorde dalla prospettiva del possesso del corpo del grande taumaturgo, già annoverato tra i suoi patroni in virtù del suo ellenismo cultuale, al punto da volerlo anch’egli effigiato nella corona absidale della basilica palatina marciana, insieme agli apostoli fondatori della Chiesa aqueleiese-gradense, Pietro, Marco ed Ermagora. La spedizione che muove alla volta di Mira di Licia ha un carattere del tutto ufficiale, rispetto a quella che due secoli e mezzo prima aveva cercato in Egitto le reliquie dell’apostolo Marco: vi partecipa infatti il vescovo di Olivolo (ormai chiamata Castello) Enrico Contarini ed il figlio del doge Vitale Michiel e, per il resto essa è formata non già da mercatores, ma da milites, nell’ambito, del resto, della prima crociata. Sennonché quando arrivano a Venezia le presunte reliquie del santo – l’agiografo autore della Translatio veneziana oscilla tra la pretesa che i Baresi siano stati a suo tempo ingannati ed una più realistica ammissione che i Veneziani avevano trovato ciò che i Baresi avevano trascurato di prendere – questa concordia cittadina si infrange. Il cospicuo deposito reliquiale traslato da Mira di Licia – comprendente non solo le pretese reliquie del santo Taumaturgo, ma anche quelle di due santi sconosciuti al culto della Chiesa ortodossa, un altro Nicola vescovo di Mira, zio e predecessore del Taumaturgo ed un non meglio precisato Teodoro martire, talvolta presentato anch’egli come vescovo nelle più tardive fonti veneziane – si trova immediatamente al centro di un conflitto di interessi: il potere civile lo vuole nella basilica palatina di S. Marco, altri lo vorrebbero deporre nella chiesa di S. Silvestro, dove risiede il patriarca di Grado, Pietro Badoer, perché come il doge «sedet ad sanctum Marcum», così il patriarca «sedeat ad sanctum Nicolaum», e non privo di aspettative in merito doveva essere pure il vescovo Contarini per la sua cattedrale di Castello, in quanto promotore ed animatore della traslazione. In questa multilaterale disputa ebbe la meglio il monastero benedettino, eponimo del santo, di s. Nicolò al Lido, che si assicurò il prezioso possesso, conservato ancora oggi – dopo la soppressione del monastero – in quella chiesa, non più però in un sarcofago nella cripta, ma, dal 1634, nella monumentale urna di marmo intarsiato da artisti napoletani, che sovrasta l’altare maggiore. Si intravvede in questa vicenda un divaricarsi della pietà lagunare che presuppone un'alterità di poteri, se non un vero e propria antagonismo, tra il polo ducale e quello ecclesiastico, ognuno dei quali con il proprio santo – espressione, sul piano cultuale, dell'identità veneziana –, di cui custodisce le reliquie in un santuario a lui dedicato. Non a caso la traslazione a Venezia delle pretese reliquie di s. Nicola avviene sei anni dopo il rinvenimento, in S. Marco, del corpo dell’evangelista, un evento, verificatosi il 24 giugno 1096, estremamente funzionale al rilancio politico del ducato.

Una terza traslazione veneziana, di pochissimo successiva a quella nicolaiana, suscettibile anch’essa di valenza ideologica, è quella del corpo dell’arcidiacono e protomartire Stefano, trasferito da Costantinopoli in laguna, nel 1109 o 1110, su iniziativa di un monaco del monastero benedettino di S. Giorgio Maggiore, per essere qui collocato e divenire, su esplicita richiesta dell’abate locale, il fulcro cultuale dell’abbazia veneziana, al punto da farle assumere, almeno temporaneamente, la doppia titolatura dei SS. Giorgio e Stefano. Giorgio Cracco ha visto in questa traslazione – e soprattutto nel racconto dell’evento steso da un monaco del monastero nella seconda metà del secolo – l'espressione di un culto più monastico che cittadino, coagulo di forze in declino nel tessuto sociale della Serenissima. Comunque, per l’anonimo monaco autore della Translatio, il suo monastero, in virtù della presenza del corpo del protomartire, si inserisce a pieno titolo in un circuito sacro che, a partire dal luogo di riposo rispettivamente di s. Marco e di s. Nicola, racchiude tutta la città in un triplice cordone protettivo.

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